Un apporto dell’ebraismo alla teologia delle religioni
La Lettera enciclica Redemptoris missio, trattando del dialogo inter-religioso, afferma che esso “fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione”[1].
Questo “dialogo … non costituisce l’intera missione della Chiesa, che non può semplicemente sostituire l’annuncio, ma resta orientato verso l’annuncio in quanto in esso il processo dinamico della missione evangelizzatrice della Chiesa raggiunge il suo culmine e la sua pienezza”[2].
L’allora Card. Ratzinger ha ben spiegato il luogo dove si colloca il dialogo nella sua relazione con l’annuncio.
Due le ragioni principali:
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La vitalità della risposta cristiana esige fondamentalmente la vitale esperienza della domanda; l’annuncio cristiano può sempre solo ricevere da questa domanda la sua vita e la sua realtà nell’umanità. Per questo motivo, si deve da un lato destare la domanda, mentre, da un altro lato, il messaggio cristiano si deve continuamente lasciar ridestare dall’effettivo chiedere degli uomini, partendo dall’ascolto a queste domande per plasmare ogni volta in modo nuovo la sua risposta. Il “dialogo” sarà quindi sempre anzitutto e sostanzialmente un prendere sul serio la ricchezza e la profondità del domandare umano, quel partecipare alla totalità della passio humana, quel “diventare tutto a tutti” (1Cor 9, 22), che è infinitamente più di un accorgimento pedagogico.
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L’annuncio cristiano, oltre al kerygma unicamente impegnante, contiene sempre anche una parte umana, che non può rivendicare in nessun senso un tale carattere di impegno vincolante. Sarà perciò sempre di nuovo necessario il dialogo con il sapere umano, per poter appunto riconoscere come tali gli elementi puramente umani e poterli discriminare. Poiché nel kerygma esiste sempre anche ciò che in verità non è kerygma, ma trasposizione categoriale umana, è perciò continuamente necessario l’ascolto paziente per il reale sapere dell’umanità[3].
Se il dialogo è orientato verso l’annuncio, esso però “non nasce da tattica o da interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole”[4].
La Chiesa e Israele
Tra tutte le religioni, un rapporto oltremodo speciale lega i cristiani con gli ebrei. Infatti è “grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e a giudei”[5].
Questo legame di particolare importanza fu sottolineato da Giovanni Paolo II durante la storica visita alla Sinagoga di Roma.
“La Chiesa di Cristo – affermava il Papa – scopre il suo ‘legame’ con l’ebraismo ‘scrutando il suo proprio mistero’. La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”[6].
Le radici comuni, il ricchissimo patrimonio spirituale che ebrei e cristiani condividono ed il cammino per il miglioramento dei rapporti e dell’amicizia con il popolo ebraico, che con Papa Giovanni Paolo II ha fatto passi decisivi, furono confermati da Benedetto XVI in occasione della sua visita alla Sinagoga di Colonia del 19 agosto 2005[7].
Per abbordare il tema del rapporto tra Israele e la Chiesa tre opzioni erano ritenute possibili dal padre Emmanuel Lanne.
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La prima, che è quella dell’apologetica tradizionale, consiste nel rifiutare il problema e di situare unicamente i rapporti tra Israele e il cristianesimo nel dominio della missione e dell’escatologia pura, e non in quello dell’ecclesiologia.
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Una seconda opzione possibile è di considerare che esistono certamente delle relazioni reali tra Israele e la Chiesa, ma che esse sono puramente casuali.
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La terza opzione situa il problema d’Israele all’interno stesso della teologia della Chiesa[8].
Con il discorso di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma il rapporto tra Israele e Chiesa diventa intrinseco alla religione cristiana.
Questa linea conciliare affermata dalla Dichiarazione Nostra aetate, seppur ancora in modo embrionale, è ribadita dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
“La Chiesa, popolo di Dio nella Nuova Alleanza, scrutando il suo proprio mistero, scopre il proprio legame con il popolo ebraico, che Dio ‘scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola’. A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nell’Antica Alleanza. È al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9, 4-5) perché i ‘doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’”[9].
Una missiologia cristiana non può dunque non interrogarsi su come il pensiero ebraico abbia inteso ed intende la missione.
È questo un capitolo da aprire nei nostri trattati di missiologia, proprio per quelle esigenze di dialogo e di approfondimento che la missione comporta.
È un capitolo fondamentale nella storia della missiologia proprio per quel legame da studiare e da approfondire che lega la spedizione di Colombo e l’incontro con le nuove terre (12 ottobre 1492) con il decreto del 31 aprile 1492, mediante il quale Isabella e Ferdinando intimavano a tutti gli ebrei residenti nei loro territori l’ordine di convertirsi o di lasciare definitivamente la Spagna senza più potervi tornare, sotto pena di morte[10].
Le grandi correnti missionarie del XVI secolo che hanno profondamente marcato il volto della missiologia moderna, e dalle quali nessuna “nuova evangelizzazione” potrà prescindere, sono all’interno di una “cristianità” che vive questa lacerante contraddizione.
Un rapporto ad intra, verso i “fratelli maggiori”, caratterizzato da intolleranza, conversioni forzate e persecuzioni, ha determinato anche il tipo di relazione verso i popoli destinatari dell’annuncio evangelico.
Pur senza cadere in posizioni di storicismo assoluto per le quali ogni fatto viene giustificato come unica possibilità razionale, bisogna tener presente che, per esprimere giudizi, ci si deve collocare all’interno di processi storici complessi e non giudicabili con una coscienza formatasi fuori del tempo.
Resta il fatto che il legame con i “fratelli maggiori” ha avuto conseguenze sul tipo di rapporto che si sarebbe instaurato con coloro che sarebbero diventati fratelli nella fede e nell’appartenenza al comune progetto.
Accennando al pensiero di Elia Benamozegh[11] a riguardo della missione di Israele, si vuole solo sottolineare embrionalmente l’importanza del tema in questione e l’ineludibilità di questa nel contesto della missiologia.
Rimuovere la questione di Israele e confinarla nel regno inconscio d’un rimosso irrisolto collettivo, vuol dire anche non comprendere la genesi profonda di conflittualità devastanti nel rapporto con i popoli che s’incontrano per la prima volta.
E tra questi popoli non possiamo non pensare anche a tutti coloro che si muovono in quelle aree culturali che Giovanni Paolo II chiama areopaghi moderni[12], laddove si è consumato il dramma della nostra epoca: “La rottura tra Vangelo e cultura”[13].
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[1] Redemptoris missio, 55.
[2] Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Istruzione Dialogo e annuncio: Riflessioni e orientamenti sull’annuncio del vangelo e il dialogo interreligioso (19 maggio 1991), § 82, in Enchiridion Vaticanum, XIII, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, 226-227.
[3] Cfr. J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1992, 318-319.
[4] Redemptoris missio, 56.
[5] Nostra aetate, 4.
[6] Giovanni Paolo II, Allocuzione nella Sinagoga durante l’incontro con la comunità ebraica della città di Roma (13 aprile 1986), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX/1, Libreria Editrice Vaticana 1986, 1027.
[7] Cfr. Benedetto XVI, L’amicizia confermata (Visita alla sinagoga) (19 agosto 2005), in “Il Regno-documenti” 50 (2005) 393-395.
[8] Cfr. E. Lanne, Israël et les schismes, in 1054-1954. L’Église et les Églises. Neuf siècles de douloureuse séparation entre l’Orient et l’Occident, II, Ed. de Chevetogne, Gembloux 1955, 69.
[9] Catechismo della Chiesa Cattolica, 839.
[10] Cfr. C. Bernand - S. Gruzinski, Histoire du Nouveau Monde. De la découverte à la conquête, une expérience européenne. 1492-1550, Fayard, Paris 1991, 82.
[11] Per una introduzione alla vita e alle opere, cfr. R. De Felice, Benamozegh Elia, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1966, 169-170.
[12] Cfr. Redemptoris missio, 37c.
[13] Evangelii nuntiandi, 20. Riportiamo cultura al singolare, come si trova nel testo dell’Esortazione apostolica (“Discidium inter Evangelium et culturam”), anche se si sarebbe preferito usare l’espressione culture.
23/06/2021