Il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile

 

Volto - sguardo - maschera

La visione si manifesta non allorché tentiamo con le nostre forze (ascesi farisaica) di superare la statura a noi assegnata e di varcare soglie a noi inaccessibili, ma quando misteriosamente e incomprensibilmente la nostra anima giunge sul piano dell’altro mondo, invisibile, sollevata fin lassù dalle forze celesti stesse.

Questa visione è più oggettiva delle oggettività terrestri, più sostanziale e reale di esse.

Tre parole chiave illustrano meglio questi concetti: volto, sguardo, maschera.

Il volto è ciò che vediamo nell’esperienza diurna, ciò che ci svela la realtà del mondo terreno.

Lo sguardo è la manifestazione dell’ontologia.

Usando categorie bibliche più familiari potremmo dire che il volto è l’immagine e lo sguardo è la somiglianza a Dio resa presente sul volto.

Quando il volto si trasfigura in sguardo annuncia i misteri del mondo invisibile senza parole, con il suo stesso aspetto.

La maschera o larva è la piena contrapposizione allo sguardo. È qualcosa che ha una certa somiglianza col volto, che si presenta come volto, che si spaccia per volto, ed è preso per tale, ma che dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia quanto a sostanza metafisica.

Come il peccato s’impadronisce della persona, il volto cessa d’essere la finestra da cui si effonde la luce di Dio; il volto si stacca dal suo principio creatore, perde vita e si irrigidisce in una maschera dominata dalla passione.

Viceversa la sublime ascesa spirituale accende nel volto uno sguardo luminoso, cancellando tutte le tenebre.

V’è un passo evangelico cui accenna Florenskij che ferma particolarmente l’attenzione del missiologo. Laddove commenta Mt 5, 16: “Affinché splenda la luce vostra agli uomini e vedano i vostri atti buoni e sia lodato il Padre vostro nei cieli”. Commenta Florenskij:

“‘I vostri atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico, vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno l’interna luce dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, gli uomini lodano il Padre celeste, la Cui immagine sulla terra così ha sfolgorato”[1].

Viene da pensare! Siamo abituati a leggere la storia della fondazione della Chiesa, delle Chiese particolari, dei grandi movimenti religiosi, di tante famiglie religiose in un’ottica speculativa. Sarebbe interessante operare una rilettura nell’ottica d’una bellezza che attrae e che fa correre dietro di essa.

Una bellezza nella quale il velo kenotico gettato su di essa non fa dimenticare il salmo che canta: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45, 3).

La nostra mentalità razionale cerca i motivi e le ragioni valide d’una scelta. Una “mentalità iconica” guarda l’umanità con uno sguardo luminoso e così crea una realtà nuova.

Una Chiesa non nasce se noi siamo “larve” e neppure se ci fermiamo sul piano del volto. Una Chiesa nasce dallo sguardo di coloro che non sono fantasmi della terra, tutt’altro che astratti, tutt’altro che esangui, ma non si esauriscono su questa terra, sono idee[2] vive, idee del mondo invisibile.

Nella vita di Antonio, alle origini del monachesimo, leggiamo come il suo sguardo, la manifestazione del suo essere, esercitasse un fascino e creasse un nuovo mondo.

“Molti infatti, al solo vedere la sua maniera di vita, cercavano di emularlo”[3].

“Anche i pagani, e quelli tra loro che essi chiamano sacerdoti, venivano in chiesa, domandando e dicendo: ‘Vogliamo vedere l’uomo di Dio’”[4].

“Quante fanciulle già promesse spose, solo per averlo visto al di là del fiume, rimasero vergini in Cristo!”[5].

“Il volto di Antonio era pieno di grazia. Aveva avuto anche questo dono singolare dal Salvatore: se stava insieme a molti eremiti, e qualcuno di coloro che non l’avevano mai visto voleva vederlo, questi subito trascurava gli altri e correva da lui, attratto dal suo volto e dalla sua figura. Si distingueva dagli altri non perché fosse più alto o più robusto, ma faceva questo effetto la serietà dei costumi, la fermezza e la purezza del suo animo. Essendo la sua anima quieta, anche il suo aspetto visibile restava senza turbamenti, di modo che la gioia e la letizia dell’animo apparivano sul suo volto, e i movimenti del corpo lasciavano sentire e capire la stabilità dell’animo, come sta scritto: ‘Quando il cuore gode, il volto è lieto. Quando invece è triste, anche il volto è mesto’”[6].

L’iconostasi è lo schermo che distingue i due mondi. L’iconostasi è la visione. L’iconostasi è i santi.

L’iconostasi materiale non sostituisce l’iconostasi di vivi testimoni e non ne fa le veci, ma è soltanto un’allusione a loro, affinché l’attenzione degli oranti sia concentrata su di loro.

La pittura di icone è la rocca delle figure celesti, il baluardo di tavole affumicate che circonda il santuario d’un vivo stuolo di testimoni. Le icone materialmente segnano questi penetranti e memorabili sguardi, queste idee sovrasensibili e rendono quasi pubbliche le visioni inaccessibili. I testimoni, mediante questi testimoni che sono pittori d’icone, ci offrono le immagini delle loro visioni. Le icone testimoniano con la loro forma artistica immediatamente e graficamente della realtà di queste forme.

“Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio suona la più persuasiva quella di cui non è fatta menzione nei manuali; si può formulare col sillogismo: ‘Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è’”[7].

Emilio Grasso

(Continua)

 

 

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[1] P.A. Florenskij, Le porte…, 50.

[2] In greco sguardo si dice idea. Cfr. P.A. Florenskij, Le porte..., 44.

[3] Vita di Antonio. A cura di C. Mohrmann, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 1974, 97.

[4] Vita di Antonio..., 137.

[5] Vita di Antonio..., 167.

[6] Vita di Antonio..., 133.

[7] P.A. Florenskij, Le porte..., 64.

 

 

 

10/06/2021