Il primo genocidio del XX secolo
La lenta marcia del negazionismo turco
Il negazionismo turco è passato per diverse tappe. La prima, inaugurata da Atatürk già nel 1923, consisteva nell’imputare agli armeni la responsabilità delle calamità subite, legittime rappresaglie per le insurrezioni di cui si erano resi responsabili.
La seconda, nel decennio successivo, promossa dalla Società Storica di Turchia, propagò una visione più cinica degli avvenimenti, secondo la quale l’estirpazione dall’Anatolia delle popolazioni armene e greche era necessaria ai fini della creazione di uno Stato nazionale turco omogeneo.
La tappa finale è successiva al 1965, quando si celebrarono i cinquant’anni del genocidio armeno. La Turchia, che era diventata membro delle Nazioni Unite e aveva firmato la Convenzione sul genocidio, favorì allora delle iniziative storiografiche intorno ad alcune direttrici fondamentali.
Una prima direttrice nega l’esistenza di un popolo armeno: non c’è mai stata un’Armenia storica, né degli armeni, solamente degli ittiti che si credevano armeni. Perché vi sia genocidio, infatti, non è sufficiente un gran numero di vittime: serve che le vittime siano identificabili come gruppo umano omogeneo, dotato di una specifica identità etnica, culturale o religiosa. Parallelamente si cerca di dimostrare che l’Anatolia è la patria originaria dei turchi, in quanto discendenti degli ittiti.
Un’altra direttrice riprende le argomentazioni di Atatürk – gli armeni hanno tradito la fiducia dei turchi e hanno abusato della loro pazienza – e le radicalizza: sono gli armeni ad aver realizzato un genocidio nei confronti dei turchi. Un’accusa, questa, che equipara i massacri contro gli armeni del 1915 a delle azioni compiute nel 1917 da bande armene venute dalla Russia contro dei villaggi turchi dell’Anatolia orientale. Una variante di questa direttrice, ispirata alla storiografia marxista, congiunge il conflitto nazionale con la lotta di classe, identificando gli armeni con i capitalisti oppressori e i turchi con il proletariato.
Un’ultima direttrice riconosce la storicità delle deportazioni e dei massacri, ma ne nega la pianificazione, cioè il genocidio.
Queste argomentazioni si accompagnano alla querelle dei numeri. Quello degli armeni viventi nell’impero: 2.100.000, secondo il patriarcato, 1.290.000 secondo il censimento ottomano. E quello delle vittime armene: 1.500.000 secondo il patriarcato, da 200.000 a 800.000 secondo gli storici turchi.
La conclusione di Ternon è sarcastica: “In questa successione di finte e di attacchi, gli storici turchi si rinchiudono nelle loro contraddizioni. Gli armeni non sono mai esistiti in quanto tali; la Turchia non ha mai premeditato di distruggerli; loro, al contrario, hanno preparato e cominciato un genocidio contro i turchi; se gli armeni sono stati distrutti, è colpa loro; il numero delle vittime non è poi così elevato. L’assurdità di questa posizione si riassume in questa formula: non è successo niente, però se lo sono meritato”.
Inescusabile, il negazionismo è però comprensibile: riconoscere il genocidio degli armeni, oltre ad esporre a possibili rivendicazioni relative a riparazioni dapprima morali, poi materiali e infine territoriali, avrebbe l’effetto di rimettere in discussione i miti e le figure su cui si fonda la Turchia moderna, compreso lo stesso Atatürk.
Non sfugge al parossismo negazionista turco nemmeno la frase che Hitler avrebbe pronunciato in un discorso rivolto ai suoi più diretti collaboratori pochi giorni prima dell’invasione della Polonia per convincerli della necessità di sterminare i polacchi al fine di creare lo “spazio vitale” indispensabile al popolo tedesco. La conclusione di Hitler sarebbe stata: “Chi parla oggi dello sterminio degli armeni?”. Per gli storici turchi questa frase – che suggerisce che Hitler si sia ispirato al genocidio armeno per i suoi disegni e per questa ragione è scritta all’entrata del Museo dell’Olocausto a Washington – non solo non sarebbe mai stata pronunciata, ma sarebbe un falso forgiato per sostenere la tesi di un olocausto armeno. La posizione turca si fonda sul fatto che la frase è assente dal resoconto del discorso di Hitler stilato dal Comando Supremo della Wehrmacht. Al di là del fatto che la frase, menzionata anche in una sessione del processo di Norimberga, sembra avere la sua fonte negli appunti personali dell’ammiraglio Canaris, presente al discorso, rimane che in molte occasioni precedenti Hitler aveva già manifestato che, per lui, il modo in cui il governo ottomano aveva risolto la questione armena era esemplare del modo in cui andava trattata la questione degli ebrei e degli slavi.
“Chi parla oggi dello sterminio degli armeni?”. C’è ancora chi ne parla: con le sue espressioni potenti e coraggiose all’inizio della Messa per il centenario del Martirio armeno, Papa Francesco ha mostrato che lui si ricorda. E ha impegnato tutti i cattolici sulla strada della memoria e della verità.
Un martire armeno: il beato Maloyan
L’esperienza del martirio collettivo è una delle caratteristiche più tipiche della cristianità armena, fin da quando nel 451 gli armeni, sconfitti alla battaglia di Avarayr, furono posti dai sassanidi davanti all’alternativa di abbandonare il cristianesimo per abbracciare il mazdeismo o morire. Tra le schiere di martiri armeni occupa un posto privilegiato Mons. Maloyan, Arcivescovo di Mardin. Contrario ad ogni commistione tra la fede cristiana e la politica dei patrioti armeni insurrezionalisti, si era sempre comportato come un suddito fedele dell’impero ottomano, tanto che era stato decorato con un decreto del Sultano poche settimane prima che la situazione precipitasse. Il 30 aprile 1915 la polizia fece irruzione in vescovado, cercando materiale compromettente, senza trovare alcunché. Il giorno dopo Mons. Maloyan rese noto il suo testamento spirituale nel quale, oltre a dichiarare la sua lealtà nei confronti del governo, esortava il suo
gregge ad essere fedele alla Santa Sede e forte nella fede. Il 13 giugno venne trascinato in tribunale. Lì, il commissario gli chiese di consegnargli le armi nascoste nella sua casa. Il Vescovo, obiettando che era sempre stato un cittadino fedele al governo, gli contestò il diritto di usare violenza a un capo religioso, riconosciuto tale dal governo, e dal Sultano ritenuto degno di un alto riconoscimento onorifico conferitogli con un firmano, un decreto imperiale. “Oggi è la spada che prende il posto del governo – gli rispose il commissario –. La tua decorazione e il tuo firmano non servono a nulla”.
Il commissario gli propose allora di diventare musulmano per avere salva la vita. Mons. Maloyan replicò che mai avrebbe rinnegato Gesù né tradito la Chiesa e che era una gioia per lui subire per Cristo qualunque supplizio, anche la morte. Allora un soldato lo schiaffeggiò brutalmente e il commissario lo colpì violentemente alla testa con il calcio della pistola. Poi i soldati gli strapparono le unghie dei piedi e lo costrinsero a camminare insieme ad altri fedeli verso il luogo dell’esecuzione, dove il commissario lesse la sentenza di morte: “Lo Stato vi ha concesso molti favori; in cambio, voi avete tradito il Paese. Per questo siete condannati a morte. Tuttavia, se qualcuno diventa musulmano sarà liberato e ritornerà a Mardin”.
Giovanni Paolo II ha riconosciuto come autentico martirio la morte di Mons. Maloyan e lo ha solennemente beatificato il 7 ottobre 2001.
Sono innumerevoli i fedeli armeni che, come Mons. Maloyan, hanno preferito morire che abbracciare l’Islam. “È meglio morire per la nostra religione che vivere per la vostra”, disse uno di loro al boia che gli aveva offerto l’alternativa della conversione. Qualche sopravvissuto, scampato alle carneficine perché coperto da un mucchio di cadaveri o lasciato per morto, ci ha fatto arrivare le loro testimonianze, nelle quali si ritrova il sapore degli atti dei martiri dei primi secoli del cristianesimo.
18/04/2015