Con una brevissima e-mail mi hanno comunicato che “il sor[1] Giovanni mi abbraccia dal cielo”.

Vissi al borghetto Alessandrino, nella periferia di Roma, dal Natale 1969 a giugno 1972.

Con il permesso dell’allora Cardinal Vicario Angelo Dell’Acqua andai da solo a vivere in quel borghetto, in una di quelle baracche che alla meno peggio avevo rimesso in sesto.

Sulla porta della mia baracca avevo inchiodato un crocifisso. Alcune sassate e il crocifisso infranto furono il brindisi d’accoglienza.

I preti non li volevano. I preti dovevano andare a vivere in Vaticano.

A quei tempi la periferia romana costituiva la cintura rossa della città. Nelle manifestazioni per il diritto alla casa, il Vaticano, tout court identificato con la Chiesa, era sempre uno dei bersagli preferiti. A torto o a ragione lo si riteneva legato ai sindaci del sacco di Roma e della speculazione edilizia.

Quel crocifisso spaccato e un’ostilità che ingenuamente non mi aspettavo determinarono una svolta nella mia vita, un punto di non ritorno sul quale sarei vissuto o morto.

Stavo lì come prete della mia Chiesa. Lì scoprii il sacerdote come ponte, ma soprattutto come il crocifisso. Da una parte quel popolo e dall’altra quella Chiesa. Essere quella Chiesa agli occhi del popolo e quel popolo agli occhi della Chiesa voleva dire patire l’incomprensione dell’una e dell’altro.

Sarebbe stato più facile e gratificante saltare il fossato per stare in una trincea o nell’altra. Ma facendo ciò avrei in un solo atto tradito il popolo e la mia Chiesa. Ma, soprattutto, avrei tradito me stesso e avrei dato ragione a mio papà, uomo onesto, religioso e anticlericale che, quando gli comunicai che diventavo prete, altro non disse che queste parole: “Un vigliacchetto come te fa bene. La vita è lotta e uno che non vuole lottare va a nascondersi sotto la sottana dei preti”.

In quel terribile momento di solitudine non mi salvò l’umiltà. Mi salvò l’immagine della vergogna che avrei provato dovendo dare ragione a mio padre.

Un popolo violento, che porta nel suo sangue e ben cicatrizzata la violenza storica e strutturale da antiche generazioni, non sa proprio che farsene di un “vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”[2].

Lì, in quella Borgata, tra casette di fango e latta, incontrai uomini veri che attendevano un Dio vero, un Dio carne e sangue, un Dio come solo Gesù dei Vangeli lo incarna.

Di fronte al Gesù dei Vangeli, quel Gesù annunciato dalla Chiesa e non dalle nostre fantasie, si pecca, si cade, ci si rialza, si bestemmia, si chiede perdono, si abbandona, si ritorna, si odia, si ama, ci si dispera, si crede e spera.

Di certo si vive e ci si schiera, o freddi o ardenti, ma non si resta tiepidi e indifferenti per essere vomitati fino alla nausea (cfr. Ap 3, 16).

Se dovessi definire con una sola parola chi era er sor Giovanni, potrei solo dire che era “un uomo”.

Non era di certo – per usare l’espressione ben nota di Leonardo Sciascia – “un mezz’uomo o un ominicchio o un quaquaraquà”[3].

Un uomo dal volto bruciato dal sole, dai polmoni corrosi dal catrame che aveva respirato più dell’ossigeno, dalle mani che parevano volessero stritolarti quando ti stringevano, dallo sguardo dolce e mansueto con cui ti guardava quando, al secondo bicchiere, cominciava a raccontarti la sua vita.

Militava in un movimento extra-parlamentare, Lotta continua, sentendosi tradito dal Partito Comunista. Ma non guardò in faccia né il Partito né i compagni extra-parlamentari quando si trattò di difendere la Scuola della Libertà che avevo creato in Borgata, la Scuola dei suoi amati figli, la Scuola del suo Peppinello.

In tante battaglie vidi sempre er sor Giovanni in prima fila. Gli domandai una volta se avesse mai paura. Mi rispose, in maniera disarmante, che lui di paura ne aveva tanta. Ma la più grande era quella di non saper difendere chi amava.

Forse era questo il segreto del sor Giovanni che me lo rese tanto caro.

Lì in Borgata er sor Giovanni lo ritrovai sempre accanto a me.

Il sapere che er sor Giovanni mi abbraccia dal Paradiso mi fa affrontare con coraggio le ultime battaglie.

A quell’abbraccio non mancherò.

Emilio Grasso

 

 

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[1] In dialetto romanesco er sor significa “il signor”.

[2] A. Manzoni, I Promessi Sposi. A cura di N. Sapegno - G. Viti, Le Monnier, Firenze 1971, 23-24.

[3] Cfr. L. Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1990, 100.

 

 

 

25/08/2024