Omelia in occasione del 124° anniversario di fondazione della città di Ypacaraí

 
Ypacaraí, 13 settembre 2011

 

L’anniversario della fondazione della nostra città di Ypacaraí ci offre, ancora una volta, l’occasione di riflettere, alla luce della parola di Dio e della sua corretta interpretazione secondo il Magistero della Chiesa, sulla relazione che esiste tra la liturgia eucaristica che celebriamo e la vita della città terrena dove viviamo.

“Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini…; aspettiamo, quale Salvatore, il Signore Gesù Cristo, fino a quando Egli, nostra vita, si manifesterà. Allora anche noi saremo manifestati con Lui nella gloria”[1].

La dimensione terrena e celeste ci ricorda che “la Chiesa avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunciando la croce e la morte del Signore fino a che Egli venga”[2].

La dimensione terrena e celeste della liturgia, unita alla dimensione esodiale, peregrinante e di diaspora della Chiesa, ci ricorda che noi, i cristiani, non abbiamo quaggiù una sede stabile, giacché andiamo in cerca di quella futura (cfr. Eb 13, 14). Aspiriamo, infatti, a una patria migliore, cioè a quella del cielo (cfr. Eb 11, 16).

Ed è la contemplazione della Città Santa – la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa che si adorna per ricevere il suo sposo (cfr. Ap 21, 2) – che ci spinge a edificare la città terrena a immagine della città celeste, dove non vi sarà né morte né lutto né lamento né affanno (cfr. Ap 21, 4).

Non c’è dubbio che la città terrena mai s’identificherà con quella celeste, anche se siamo chiamati già a costruire su questa terra i valori della vita, che ancora non abbiamo realizzato e mai realizzeremo in forma piena e definitiva.

Il ruolo della politica per la costruzione della città terrena

Varie volte abbiamo detto e scritto che l’edificazione della città terrena appartiene alla politica. Desidero ripeterlo, ancora una volta, citando le parole del Santo Padre Benedetto XVI, pronunciate il 13 maggio 2007, durante il discorso inaugurale in occasione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, ad Aparecida.

Afferma il Santo Padre:

“Questo lavoro politico non è competenza immediata della Chiesa. Il rispetto di una sana laicità – compresa la pluralità delle posizioni politiche – è essenziale nella tradizione cristiana. Se la Chiesa cominciasse a trasformarsi direttamente in soggetto politico, non farebbe di più per i poveri e per la giustizia, ma farebbe di meno, perché perderebbe la sua indipendenza e la sua autorità morale, identificandosi con un’unica via politica e con posizioni parziali opinabili. La Chiesa è avvocata della giustizia e dei poveri, precisamente perché non si identifica coi politici né con gli interessi di partito. Solo essendo indipendente può insegnare i grandi criteri e i valori inderogabili, orientare le coscienze e offrire un’opzione di vita che va oltre l’ambito politico. Formare le coscienze, essere avvocata della giustizia e della verità, educare alle virtù individuali e politiche, è la vocazione fondamentale della Chiesa in questo settore. E i laici cattolici devono essere coscienti delle loro responsabilità nella vita pubblica; devono essere presenti nella formazione dei consensi necessari e nell’opposizione contro le ingiustizie”[3].

Il ruolo della Chiesa nella realizzazione di una vera democrazia

La vocazione fondamentale della Chiesa, dunque, è di formare le coscienze, essere avvocata della giustizia e della verità, educare alle virtù individuali e politiche.

Nella sua Enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI affermava:

Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis[4].

Affinché le istituzioni della città funzionino in nome e per conto di tutti i cittadini a favore del bene comune senza distinzione di nessun tipo, la democrazia deve essere partecipativa.

Questo lo afferma, con estrema chiarezza, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa laddove scrive:

La partecipazione alla vita comunitaria non è soltanto una delle maggiori aspirazioni del cittadino, chiamato ad esercitare liberamente e responsabilmente il proprio ruolo civico con e per gli altri, ma anche uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia. Il governo democratico, infatti, è definito a partire dall’attribuzione, da parte del popolo, di poteri e funzioni, che vengono esercitati a suo nome, per suo conto e a suo favore; è evidente, dunque, che ogni democrazia deve essere partecipativa. Ciò comporta che i vari soggetti della comunità civile, ad ogni suo livello, siano informati, ascoltati e coinvolti nell’esercizio delle funzioni che essa svolge”[5].

Tutti sono chiamati a partecipare attivamente alla vita pubblica

Un’autentica democrazia partecipativa richiede che tutti i cittadini prendano parte attivamente alla vita pubblica.

A questo proposito, è decisivo ciò che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica:

“Spetta a coloro che sono investiti di autorità consolidare i valori che attirano la fiducia dei membri del gruppo e li stimolano a mettersi al servizio dei loro simili. La partecipazione ha inizio dall’educazione e dalla cultura. Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza”[6].

La partecipazione – ripeto l’insegnamento della Chiesa, lo si voglia o non lo si voglia – esige educazione e cultura.

Chi studia scienze politiche conosce molto bene l’antico adagio: “Panem et circenses”.

“Panem et circenses”, che tradotto vuol dire: “Pane e giochi”, è una locuzione latina peggiorativa, oggi in uso, che descrive la pratica di un governo che, per mantenere tranquilla la popolazione e coprire fatti discutibili, elargisce alle masse generi alimentari e intrattenimenti di bassa qualità e con criteri assistenzialisti.

La frase fu creata nel I secolo d.C. dal poeta romano Giovenale e si ritrova nelle sue Satire[7]. Originariamente descriveva l’usanza degli imperatori romani che regalavano grano e l’ingresso ai giochi del circo, come modo per distogliere il popolo dalla politica.

Equivarrebbe ora a “pane e pallone”, “pane e divertimento”, ecc.

Nel suo contesto, la frase latina panem et circenses fa riferimento all’interesse ultimo del popolo romano, che aveva dimenticato il suo diritto per nascita a essere coinvolto nelle vicende politiche. Giovenale mostra disprezzo per la decadenza dei suoi contemporanei. I politici romani misero in atto un piano per ottenere i voti dei poveri; con il regalare alimenti a buon mercato e intrattenimenti, i politici ritennero che questa politica di “pane e giochi” fosse la forma più adatta per prendere il potere.

Sarebbe interessante fare una riflessione profonda e disinteressata, libera da calcoli di ricerca del potere, su quante ore di scuola seria, di educazione e di cultura, perdono i nostri giovani a causa delle prove per le parate studentesche (che si organizzano ogni anno in occasione della festa della città) e per i tornei di calcio. Quanto denaro devono spendere le famiglie per questi giochi e queste parate studentesche!

Migliorare le condizioni di vita della città

Ypacaraí merita di essere una città bella, pulita, ordinata, piena di vera vita. Tutti dobbiamo fare lo sforzo generoso di costruire, a immagine della città celeste, la città degli uomini, la nostra amata Ypacaraí, la città del lago azzurro e non del lago nero e inquinato; la città in cui il traffico automobilistico sia regolato e la velocità ridotta; dove scompaia l’immondizia per le strade e i marciapiedi non siano ridotti a discariche pubbliche; in cui si controlli l’inquinamento acustico e ambientale; dove, in modo particolare, si discuta e si risolva il problema delle fognature, si realizzi il progetto di una serie di miglioramenti del centro urbano di Ypacaraí, per cominciare a cambiare un po’ l’aspetto della nostra città, per renderla più ordinata e per regolamentare tanto il commercio quanto il traffico. Una comunità nella quale si rispettino le leggi esistenti e si creino fonti di lavoro e centri di salute funzionanti, soprattutto per i più bisognosi, e centri sociali, aperti giorno e notte, per le esigenze più urgenti dei meno abbienti.

Tutto questo esige una visione e una cultura politica a lungo termine.

Senza dubbio, la realizzazione di questo discorso, cioè il discorso del governo della città, non compete alla Chiesa. È un compito dei laici, che devono farlo sotto la propria responsabilità e senza compromettere la Chiesa.

Con profondo rispetto verso le Autorità della città e con grande amore verso tutti i cittadini, in maniera particolare verso i giovani e i più poveri, metto nel calice del Signore ognuno di voi e prego, con il sacrificio della mia vita, affinché il Signore vi conceda una vita bella e felice.

 

Don Emilio Grasso

Parroco della parrocchia Sagrado Corazón de Jesús di Ypacaraí

 

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[1] Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 8. In seguito, Sacrosanctum Concilium.

[2] Lumen gentium, 8.

[3] Benedetto XVI, Aparecida - Sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi nel Santuario di Nostra Signora (13 maggio 2007), in Insegnamenti di Benedetto XVI, III/1, Libreria Editrice Vaticana 2008, 864.

[4] Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 7.

[5] Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 190.

[6] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1917.

[7] D.G. Giovenale, Satire, X, 81.