Un apporto dell’ebraismo alla teologia delle religioni

 

Israele e la missione

Da quanto detto precedentemente risulta chiara e conseguente la posizione d’Israele riguardo agli altri popoli ed il senso della sua missione.

Benamozegh afferma:

“La Scrittura e la Tradizione stabiliscono nella maniera più esplicita che la religione dei figli di Noè, i bené Nòah, è la vera religione dei gentili e che essa ha con quella d’Israele un medesimo fondo comune. E non è altro che l’autentico cristianesimo, cioè quello che il cristianesimo, secondo le nostre credenze, avrebbe dovuto essere, e quello che esso sarà un giorno. Esso è, secondo l’ebraismo, la vera religione dei tempi messianici”[1].

“Il laico, il noachide, non è affatto fuori della Chiesa d’Israele, ma è dentro la Chiesa, egli stesso rappresenta la vera Chiesa di cui l’israelita con la sua Legge particolare è il sacerdote”[2].

Conseguente a questa impostazione, Benamozegh al Pallière, che poneva il problema d’un suo ingresso nell’ebraismo, non disse mai: “Abbracciate la religione d’Israele diventando come uno di noi”, ma al contrario: “Restate quale testimone dal di fuori tal quale siete, e mettete la vostra vita, il vostro esempio al servizio di questa verità, vale a dire attenetevi al noachismo che fa di voi un fedele della Chiesa universale”[3].

Otto anni dopo la morte di Benamozegh, Pallière scrisse al rabbino Samuele Colombo per chiedere ancora cosa fare. La risposta confermava quanto già precedentemente aveva detto il rabbino di Livorno[4]. E così diversi altri rabbini consultati[5]. Questa la risposta del dr. Jacob, rabbino di Dortmund: “Che faccia proprio il contrario di quel che san Paolo ha fatto chiamando al Dio d’Israele le nazioni della terra!”[6].

Questa sembra essere la posizione dell’ebraismo e ciò che esso intende per missione. Questo ciò che chiede ad un noachide che vuole convertirsi.

“II contrario dell’azione di san Paolo il quale, ebreo, predicava ai suoi fratelli e ai gentili l’abolizione della Legge ebraica, non era forse di predicare agli ebrei la fedeltà a questa stessa Legge, evitando di sottomettervisi personalmente e di accreditare l’idea erronea che, nell’economia divina, essa è necessaria alla salvezza dei non ebrei?”[7].

All’interno di quello spirito di dialogo, richiamato all’inizio, ci sembra importante concludere con questo brano tratto da un’opera fondamentale dell’allora Card. Ratzinger, nel quale si pone a confronto l’idea di universalismo, proprio alla fede di Israele, con quello della fede del Nuovo Testamento:

“Si vede così ancora una volta nell’universalismo delle due parti una determinante differenza, che è appunto decisiva per il problema del comportamento della chiesa con le religioni non cristiane. Israele aveva ricevuto il mandato di abbattere al suo interno con estrema decisione gli dèi e di adorare Dio solo, ma non si sentiva incaricato ad abbattere gli dèi in genere: questo era compito proprio di Dio soltanto. E non si sentiva neppure incaricato a guadagnare i popoli al Dio-Jahvé: Jahvé aveva eletto Israele, per quanto fosse Padre di tutti i popoli, facendone il figlio ‘primogenito’, ‘diletto’; il fatto che non avesse eletto in modo uguale gli altri popoli, non era cosa che riguardava Israele, né propriamente gli altri popoli; solo il tardo-giudaismo presentò questo fatto come colpa dei popoli. Poteva quindi solo riguardare Jahvé l’allargare l’elezione, così come riguardava lui solo il giudicare gli ‘dèi’ (Sal. 82). In seguito emerse l’idea di una missione di Israele per il mondo dei popoli, nella duplice forma dell’idea della passione e dell’idea della luce (del segno, della città sul monte). Ma anche qui la salvezza per i popoli riguarda Jahvé soltanto, anche se diviene qui chiaramente cosciente come tale: secondo la splendida visione di Isaia, la storia finisce con il pellegrinaggio dei popoli al monte di Sion (2, 2). Ma in questo modo l’universalismo di Israele resta pura promessa. Resta cosa di Dio, cui Israele serve soltanto con la sua ubbidiente testimonianza di sofferenza e con la luce irradiata da questa testimonianza. Con altre parole: l’universalismo di Israele resta ‘tollerante’. Nel Nuovo Testamento si ha un’altra immagine. Secondo la fede cristiana, Dio stesso è entrato in Cristo nella storia, in esso hanno già avuto inizio le realtà ultime, il tempo finale è già qui, ed il pellegrinaggio dei popoli al monte di Sion è diventato ora il pellegrinaggio di Dio verso i popoli. L’universalismo non resta più a lungo una pura visione di ciò che deve venire, ma deve essere trasformato, attraverso la fede nell’adesso del tempo finale, in fatti concreti – e questo è appunto il senso della missione”[8].

Emilio Grasso

 

 

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[1] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 119.

[2] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 120.

[3] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 140-141.

[4] Cfr. A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 151-152.

[5] Cfr. A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 152-153.

[6] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 153.

[7] A. Pallière, Il Santuario sconosciuto..., 153.

[8] J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio…, 400-401.

 

 

 

25/06/2021