Prima parte

 

Ai tanti che proclamano un amore universale, ma nel frattempo fuggono sempre e non si legano mai a nulla, don Milani ricorda il carattere concreto del vero amore: un impegno totale, fino alla morte, è sempre un impegno particolare.

“Si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più. ... Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza perché non si può far scuola senza una fede sicura. È una promessa del Signore contenuta nella parabola delle pecorelle[1], nella meraviglia di coloro che scoprono se stessi, dopo morti, amici e benefattori del Signore senza averlo nemmeno conosciuto”[2].

In un’altra lettera scritta a un noto intellettuale fiorentino chiarisce ancor meglio il suo pensiero:

“Fatti apostolo tra i tuoi compagni laureati cattolici per dar vita a una grandiosa scuola popolare a Firenze. Non come un dono da fare ai poveri, ma come un debito da pagare e un dono da ricevere. Non per insegnare, ma solo per dare i mezzi tecnici necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui son vittime. La scuola sarà evidentemente intitolata a Socrate e non al Sacro Cuore appunto in omaggio di questo arrendersi della cultura e del tipo di cattolicesimo imperante difronte ai nuovi eletti. Non consegneremo loro dunque le cose che abbiamo costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del mestiere (cioè più che altro la lingua, le lingue ecc.) perché costruiscano loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il nostro alto patronato né paterna compiacenza”[3].

La scuola di Barbiana ebbe la capacità di parlare a tutta l’Italia e superò i confini del paese.

Una lettera sul problema dell’obiezione di coscienza[4] e un’altra sul carattere di classe della scuola che discrimina i poveri e privilegia i ricchi[5] sono diventati due documenti letti e discussi a vari livelli. Il suo metodo d’insegnamento, se di metodo pedagogico si vuol parlare, è l’appello e il risveglio continuo della coscienza.

Se la cultura dominante paralizza le coscienze, le rende inerti, subalterne, gestite, eterodirette, la grandezza di Milani è l’aver colpito il centro di questo sistema, di qualunque colore fosse. Il suo fu un annuncio profetico-messianico, il cui punto decisivo è il passaggio dallo stato d’inerzia allo stato di libertà, dallo stato di subordinazione allo stato di autonomia, dallo stato di servitù dei faraoni allo stato di libertà della Terra Promessa. Fu questa l’intuizione fondamentale della pedagogia milaniana[6].

“La scuola – scrive don Milani – siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. ... E il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i ‘segni dei tempi’, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso”[7].

È più che certo che in questa intuizione don Milani conserva tutta la sua originalità. Tuttavia, qui non posso fare a meno di ascoltare l’eco del pensiero di san Bernardo nel suo relazionarsi con i giovani. All’inizio del XIII secolo, in un sermone su san Bernardo, Filippo, Cancelliere dell’Università di Parigi, affermava che il cammino dei giovani era molto difficile da comprendere e lo comparava a un vino nuovo e spumeggiante già pronto per essere consumato, ma non ancora ben chiarificato[8].

Per padre Ernesto Balducci, la profonda intuizione antropologica che sta alla base dell’esperienza educativa di don Milani è che la vera cultura non è quella che si trasmette, ma è quella che la coscienza produce da sé una volta che si decida a perseguire, con tutti gli strumenti necessari, la propria liberazione.

A Barbiana i ragazzi imparano a esprimersi con la “tecnica umile” di un lavoro fatto insieme, l’uno con l’altro, in cui nessuno educa nessuno, ma tutti si educano insieme[9].

Queste sono le sue regole per scrivere:

  1. “Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti.
  2. Sapere a chi si scrive.
  3. Raccogliere tutto quello che serve.
  4. Trovare una logica su cui ordinarlo.
  5. Eliminare ogni parola inutile.
  6. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando.
  7. Non porsi limiti di tempo”[10].

A partire dal dato concreto che sono i volti dei ragazzi, la scuola di Barbiana si apriva all’universalità della condizione umana e non vi era nulla che non interessasse e stimolasse l’attenzione di tutti.

Su una parete della scuola v’era scritto “I Care”. Era il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Venne tradotto: “Me ne importa, mi sta a cuore”.

L’eredità di don Milani

Oggi, in Italia, Barbiana, la scuola popolare, le rigide mentalità classiste sembrano un ricordo d’altri tempi.

La stessa problematica ecclesiale è profondamente cambiata. La cultura teologica di cui si nutrì don Milani era ancora fondamentalmente una cultura tridentina.

In lui vi era una stretta identificazione tra la fede e le formulazioni cattoliche di tipo catechistico.

“Siamo nella Chiesa – scrive nel 1959 – apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscano di deviare tanto in fuori che in dentro. Queste rotaie... sono nel Catechismo Diocesano e per portarsele in casa bastano 75 lire. Dopo di che sai preciso cosa puoi dire e cosa no. Tutto quel che non è proibito è permesso e credimi che non è poco”[11].

Eppure proprio in questa rigidità consiste il paradosso di don Milani. Un paradosso che ancora oggi parla, interroga e indica un cammino di rinnovamento.

Con acume Balducci parla di messaggio, non di modello. Il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni[12].

Il messaggio di don Milani è il paradosso di una obbedienza che genera disobbedienza e di una disobbedienza che si appoggia e si giustifica sull’obbedienza. In lui obbedienza - povertà - celibato formano un tutto inscindibile.

Il celibato rende possibile la totalità del dono. Egli aveva scelto la vita dei poveri senza riservare niente per sé. Osserva Balducci che chi fa questa scelta sa di essere un uomo finito. Questo è stato il suo modo di incontrare e di vivere Gesù Cristo[13].

Serrato nelle rotaie della “ortodossia”, completamente dimentico di sé nel dono fecondo del suo corpo mangiato quotidianamente come pane eucaristico, don Milani in una situazione impossibile realizzò l’impossibile: Barbiana, “una chiesa e le case sparse fra boschi e campi, in tutto 39 anime”[14], divenne una voce che parlò alla storia della Chiesa e della società italiana, giungendo al di là dei confini nativi.

Da qui si sprigionò il messaggio del paradosso della profonda fedeltà dell’obbedienza di don Milani:

“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile”[15].

Da questo sentirsi “unico responsabile” don Milani non si ritrasse.

Il professore Julio Ramos, nel testo del suo ultimo atto accademico come docente di Teologia pastorale nell’Università Pontificia di Salamanca, parlando di don Milani, ha scritto:

“Nella dignità umana si trova il cardine di tutta la sua opera nelle scuole. Fare in modo che l’uomo sia uomo, dargli dignità, portarlo al massimo delle sue possibilità umane. E questa sarà la via migliore per il Vangelo. Perciò non stupisce che egli veda – nel suo lavoro e in tutti i lavori – la cultura come autentica evangelizzazione. ... C’è un tema che ho lasciato alla fine perché, in realtà, è il primo: quello del linguaggio. Fare di esso il centro dell’educazione, perché, in fondo, qui sta il problema della trasmissione della fede, della sua autenticità e della sua proposta. Se vi è una cosa che ripugna al parroco di San Donato è dover mutilare e ridurre il Vangelo affinché possa essere compreso, invece di lavorare sul linguaggio che metta i poveri in contatto con le radici della fede. Alla fine, scuola e Chiesa concordano sul modo di generare un nuovo uomo e, attraverso di lui, trasformare la società, le relazioni umane, il mondo del lavoro, la solidarietà tra gli uomini”[16].

Chi l’ha conosciuto può testimoniare di aver incontrato un uomo che viveva e moriva (lo vidi pochi giorni prima della morte) alla presenza di Dio e dei ragazzi della scuola.

L’amore alla scuola fu tale che nelle poche righe del suo testamento lasciato ai ragazzi troviamo scritto: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”[17].

A quarant’anni dalla morte di don Milani quell’“I Care” scritto sulle pareti della scuola di Barbiana continua a testimoniare, continua a interrogare, continua a lanciare il suo messaggio.

Diventando l’“unico responsabile” egli rendeva visibile nella prassi quell’ortodossia che aveva accolto nel giorno della conversione e della quale mai aveva dubitato.

Dio, il Vangelo, la Chiesa non si erano mai posti in lui come motivo di discussione.

“Quando una cosa ti è davanti agli occhi come una realtà oggettiva e ben palpabile – scriveva nel 1959 – non perdi tempo a rammentarla e descriverla e difenderla ogni cinque minuti. ... Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in un atteggiamento difensivo e disperato. Io ci vivo e ci parlo e ci scrivo colla più assoluta libertà di parola, di pensiero, di metodo, di ogni cosa. Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza”[18].

Pochi mesi prima della morte, ormai distrutto dalla malattia, in una delle ultimissime lettere annota: “Volevo scrivere sulla porta ‘I don’t care più’, ma invece me ne care ancora molto...”[19].

In uno dei biglietti scritti poche ore prima della morte si legge: “Ora comincio a essere stanco oltre i limiti della mia capacità. Ma spero che non sia una bestemmia”[20].

Don Lorenzo Milani morì a 44 anni il 26 giugno 1967. Fu rivestito con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna. Dopo la sua morte anche le ultime famiglie lasciarono Barbiana.

Emilio Grasso

 

 

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[1] Probabilmente don Milani si riferisce al giudizio finale descritto in Mt 25, 31-46.

[2] Lettere di don Lorenzo Milani..., 277-278.

[3] Lettere di don Lorenzo Milani..., 34.

[4] Cfr. L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1971.

[5] Cfr. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1972. Per una rilettura della scuola di Barbiana in rapporto alla scuola degli anni duemila in Italia, cfr. M. Lancisi, La scuola di don Lorenzo Milani. Una lezione per i genitori, gli insegnanti e gli studenti, Edizioni Polistampa, Firenze 1997.

[6] Cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani. A cura di M. Gennari, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1995, 109-110.

[7] Cfr. L’obbedienza non è più una virtù..., 36-37.

[8] Cfr. J. Leclercq, Saint Bernard et les jeunes, in “Collectanea Cisterciensia” 30 (1968) 126.

[9] Cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani..., 67; cfr. F. Gesualdi - J.L. Corzo Toral, Don Milani nella scrittura collettiva, Postfazione di P. Freire, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1992.

[10] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa..., 20. Si è indagato sul rapporto di don Milani con Freire. Con ogni probabilità don Milani non fu a conoscenza e non ebbe notizia di Freire, cfr. G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, Milano 1996, 140.

[11] Lettere di don Lorenzo Milani..., 122.

[12] Cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani..., 50.

[13] Cfr. E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani..., 25.

[14] Cfr. Lettere di don Lorenzo Milani..., 192.

[15] L’obbedienza non è più una virtù..., 51.

[16] J. Ramos, Presentación del libro “Experiencias Pastorales” de Lorenzo Milani. Fiesta de la Facultad de Pedagogía, in M.A. Pena González - J.R. Flecha Andrés - A. Galindo García (eds.), Gozo y esperanza: memorial Prof. Dr. Julio A. Ramos Guerreira, Universidad Pontificia (Bibliotheca Salmanticensis. Estudios 285), Salamanca 2006, 86.

[17] Lettere di don Lorenzo Milani..., 324.

[18] Lettere di don Lorenzo Milani..., 139-140.

[19] Lettere di don Lorenzo Milani..., 321.

[20] Cit. in N. Fallaci, Dalla parte..., 506.

 

 

 

01/07/2025